Quando
dico che vivo a Benevento e lo dico non dalle mie parti, chi mi ascolta pensa
subito ad una città vicino Napoli. È vero, la mia città dista solo 60
chilometri dal capoluogo partenopeo, ma a me piace ricordare che Benevento ha
sempre storicamente gravitato su Roma e non su Napoli. D’altronde quando ai Garibaldini
si affidò la cosiddetta “liberazione”, la mia città era un’enclave pontificia e non apparteneva al Regno delle Due Sicilie.
Ma perché questa premessa? Preciso che a
me Napoli piace. Ci sono legato e lì ho fatto i miei studi universitari. Mi
piace il suo folclore, la sua cultura, la sua storia … ma molto meno mi piace l’approssimazione
che la domina, e con approssimazione intendo la sua capacità di “trovare
l’inganno dopo che è stata fatta la legge”, come suole dire il famoso
proverbio.
Certo, Napoli è Napoli. Se ha esportato
la pizza (che è una cosa seria), se ha esportato la sfogliatella (che è una
cosa altrettanto seria) e tante altre prelibatezze un motivo deve pur esserci;
ma ha saputo esportare anche la sua mentalità. Domina ormai una
“napoletanizzazione” planetaria. Faccio un esempio che conoscono tutti.
Finanche le grandi aziende ora agiscono alla napoletana. Quando si riceve una
telefonata di un’offerta commerciale e la si rifiuta, dopo qualche giorno
richiamano e fanno un’altra offerta ancora, più vantaggiosa… Tant’è che molti
ormai consigliano di tenere duro affinché con il passar del tempo quella offerta
diventi ancora più attraente. Un po’ come si vende a Forcella (famoso rione di
Napoli): il bancarellaro chiede una cifra, il potenziale acquirente fa una
controfferta, poi questi, se vuole avere successo, deve fare finta di andarsene
e quindi il bancarellaro richiama abbassando ancora il prezzo. Insomma, una
specie di “liturgia” del prendersi in giro.
Ora, che la napoletanizzazione abbia
coinvolto anche il commercio delle grandi aziende è risaputo, ma che abbia
intaccato anche la teologia contemporanea è quanto dire.
Prendiamo la famosa espressione: a Napoli il rosso del semaforo non è un
obbligo, ma un consiglio. Questo mi è venuto da pensare allorquando ho
letto su La Repubblica del 17 ottobre
scorso un pezzo, Il primato della
coscienza, firmato dal “teologo” Vito Mancuso a proposito della discussione
in merito alle recenti esternazioni di papa Francesco sulla coscienza,
soprattutto quella inserita nell’intervista rilasciata a Santa Marta al dottor
Eugenio Scalfari. Ebbene, Mancuso dice così: «La risposta del cattolicesimo, riprodotta alla perfezione nella lettera
del Papa a Scalfari (…) è semplice e chiara: 1)Esiste un bene comune a tutti
gli uomini, universale, oggettivo, che non dipende dalle circostanze o dai
sentimenti o dalle emozioni, ma che si sostanzia nella natura delle cose; 2)
tale bene consiste in ciò che favorisce la vita e come tale ogni uomo può riconoscerlo
mediante la luce della propria coscienza. La capacità di conoscere il bene
oggettivo mediante la coscienza soggettiva viene espressa dal cattolicesimo con
il concetto classico di sinderesi. (…)Il primato della coscienza (non
ontologico, ma gnoseologico) è un concetto peculiare del cattolicesimo che papa
Francesco non ha fatto altro che ripresentare. (…) per la vita morale non sono
indispensabili, leggi, codici, esteriorità, autorità: esiste un messaggio etico
“immanente” nella natura delle cose, e gli uomini, credenti o no, con la loro
coscienza, sulla base della sinderesi, “sono in grado di decifrarlo”. Ne viene
che ognuno con la sua ragione può essere in grado di stabilire cosa è giusto
fare e cosa evitare, basta che sia onesto con se stesso. Naturalmente ciò non è
per nulla facile, e per questo sono di aiuto le leggi, i codici e tutti gli
apparati esteriori promossi dall’autorità, i quali però devono venire
ultimamente vagliati, e per così dire autorizzati, dalla luce della coscienza.
La tradizione cattolica è chiara al riguardo».
Traduco in concetti più semplici. Da una
parte occorre salvaguardare l’oggettività della legge morale, dall’altra la
libertà della coscienza. Salvaguardare l’oggettività della legge morale senza
precludere la libertà individuale, salvaguardare la libertà individuale senza
precludere l’oggettività della legge morale e quindi evitando una deriva
relativista, individualista e soggettivista. Siamo però nel campo della pura
sofistica, ovviamente non nel senso puramente filosofico, perché i sofisti
erano relativisti a tutti gli effetti, bensì nel senso del metodo: giocare con
le parole e sui concetti per dire e non dire, per affermare e negare, per dare
e togliere, insomma per contraddirsi senza contraddirsi.
Ora, oltre al fatto che Mancuso cita il
concetto di sinderesi estrapolandolo
da un sistema, qual è quello tomistico, in cui il suo significato non può
essere in contraddizione con la priorità ontologica e logica della verità;
oltre a questo – dicevo – Mancuso non spiega come possano accordarsi
praticamente la priorità della legge universale con la libertà della coscienza
individuale. Dice anche (e questo è tipico di certi artifici linguistici) che
l’equilibrio non è facile da raggiungersi, ma poi lascia intendere che sarebbe
possibile… E come? Facciamo un esempio: Mario Rossi sa che la legge morale dice
una determinata cosa, ma poi, nella sua coscienza individuale, può decidere se
è come eventualmente applicare questa legge morale situazione per situazione. Mancuso
dice anche che non si tratta di proporre un “primato ontologico” della
coscienza quanto un “primato gnoseologico”. Capite bene che in questo caso il
relativismo cacciato dalla finestra rientra inevitabilmente dalla porta. D’altronde
una posizione di questo tipo è tipica del cosiddetto “situazionismo”, teoria
morale (anzi: amorale e perfino immorale) peculiare del XX secolo.
Si potrebbe obiettare: ma Mario Rossi
può decidere solo in un ambito che non contraddica palesemente la legge morale.
Obiezione, questa, che non tiene. La legge morale, se è legge morale, va sempre
rispettata e va rispettata integralmente, altrimenti non è più legge ma
consiglio e, se è consiglio, vale quanto il due di briscola, se ne può fare
quello che si vuole, né più né meno.
Il fatto è, cari lettori, che siamo in
tempi poco seri. Così come è poco serio il gioco delle parti che spesso si
realizza nelle compere, nel commercio da quattro soldi, nel puro affarismo di
bottega. In tempi più seri le parole e i concetti venivano utilizzati nel loro
preciso significato: se si diceva A era A, se si diceva B era B. Così come il
semaforo: se è rosso è rosso.
Ma oggi no. La “napoletanizzazione”
domina per cui tutti parlano come colui che venne fermato ad un semaforo di
Mergellina: Era rosso? Che strano, non mi
è sembrato. Ma forse era un rosso che ancora era un po’ giallo.
La legge morale? E va be’ …. La legge
comanda, ma poi si fa come si fa.